Nel suo ultimo lavoro, Jérôme Garcin non trasmette nulla ai nostri scrittori collaboratori, li accusa. Amicizia e critica sono compatibili? si chiede il nostro editorialista, dopo aver provato un leggero disagio nel leggere il libro dell’ex critico di La maschera e la piuma.
Jérôme Garcin ha appena pubblicato Parole e fatti: Belle lettere sotto l’occupazione. Questo autore, che è un amico, ha una passione per la letteratura, scrive libri notevoli e hanno sempre beneficiato di recensioni entusiastiche. Il suo registro è infinitamente vario, dall’intimo alla Storia. Riguardo a lui non ho mai dubitato della sincerità di questi elogi, proprio perché li approvavo e li condividevo. Mentre in generale ho sempre giudicato la critica francese (letteratura, cinema e/o teatro) connivente, clientelare, eccessiva e quindi falsa, oscillante tra l’iperbole e la demolizione e troppo raramente dà un’impressione di libertà e autenticità. Forse la mia visione è eccessivamente pessimistica; o dovrei ammettere di essere fermato, di fronte a tante analisi, favorevoli o meno, da questo limite intollerabile che non corrispondono alle mie?
Derisione non gradita?
Con l’ultima e breve opera di Jérôme Garcin, che ho letto d’un fiato perché mescolava la letteratura, il periodo terrificante e, per alcuni, eroico dell’Occupazione, il destino di numerosi scrittori detestabili nei loro scritti e il loro comportamento, maledetto, rifiutato , girato per Robert Brasillach, talentuoso ma fuorviante o ammirevole come Jean Prévost. Mi sono trovata di fronte ad eccellenze ma anche ad un leggero disagio.
Non devo discutere sulla scelta delle sue ostilità e delle sue predilezioni. Per quest’ultimo, sappiamo che Jean Prévost, al quale dedica diversi capitoli, è un modello: come scrittore, come uomo coraggioso, resistente ed eroico, come personalità capace di dirigere tutto allo stesso tempo, uomo di riflessione e azione.
Quando Jérôme Garcin guarda gli scrittori che disprezza perché scrivevano orrori, stringevano un patto in un modo o nell’altro con l’occupante e non corrispondevano al suo ideale di “cavalleria”, a volte nobilmente sacrificale, non perde nulla della sua qualità di stile, la sua arte dei ritratti e la sua fluidità narrativa.
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Quanto allo stile, riporta ciò che fu criticato a Paul Morand nella sua corrispondenza con Jacques Chardonne: “fare stile in ogni frase”. Ciò potrebbe essere, in modo positivo, attribuito a Jérôme Garcin.
Ciò che mi ha disturbato, e che contrasta con la profonda comprensione che Jérôme Garcin sa dimostrare anche di fronte al peggio, è il tono di derisione, o di condiscendenza, o di moralizzatore, che usa spesso. Come se fosse impossibile, nel giudicare spregevoli questi pochi scrittori, spiegare meglio perché fossero stati tali, in quale trappola la Storia li avesse intrappolati e come essi non avessero saputo né potuto uscirne. Un certo Robert Brasillach fu ammirevole fin dal suo arresto, durante il suo processo con giustizia rapida e durante la sua esecuzione: questo non compensa i suoi scritti indegni ma avrebbe richiamato, dal mio punto di vista, un dogmatismo meno curioso.
Non è necessario essere resistenti per scrivere bene
Aggiungo che Jérôme Garcin ha pienamente ragione nel celebrare gli scrittori della Resistenza, unendo al loro talento il coraggio di affrontare il nazismo e che alcuni di essi perdano la propria esistenza a causa di esso. Ma a volte ho avuto l’impressione, leggendolo, che bisognasse aver resistito per scrivere bene, per essere definito un grande scrittore. Non arriverei a collocare Céline al di sopra di tutti gli altri perché ha rivoluzionato la lingua francese, ma avendo stupito con Il viaggio O Morte a credito non dovrebbe essere trascurato.
In questo bellissimo libricino, mi tocca indirettamente l’autoritratto di Jérôme Garin: la letteratura non è tutto per lui, il coraggio è essenziale, dire no piuttosto che sì di fronte all’intollerabile è esemplare, la vita non è lunga e tranquilla fiume ma una lotta dove bisogna saper stare in piedi.
Spero, con questo post, di non aver tradito l’onestà di una critica, né la felicità di un’amicizia.